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“Alta fedeltà” compie vent’anni

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(Nella foto: una scena del film Alta fedeltà di Stephen Frears)

Il più riuscito romanzo di Nick Hornby è stato pubblicato in Inghilterra da Victor Gollancz nel 1995. Se vent’anni non sono necessariamente un arco di tempo considerevole per un romanzo, possono esserlo per un romanzo che parla di musica. Nel 1995 c’erano degli oggetti favolosi chiamati dischi, in ogni città dei ritrovi di perdizione dove questi oggetti venivano venduti e dei pazzi che li frequentavano assiduamente, sfogliando riviste specializzate e spendendo porzioni cospicue di paghette e stipendi. Di questo mondo che ormai non c’è più parlava “Alta fedeltà”. Eppure nessuno, rileggendolo oggi, si sognerebbe di definirlo un romanzo datato.

Semplicemente, l’immaginario dell’appassionato di musica non è mai stato rappresentato bene, in un romanzo, come in “Alta fedeltà”. Nelle sue duecentocinquanta pagine, Nick Hornby ha offerto un ritratto talmente preciso del feticista musicale – e forse del feticista in genere – con una tale freschezza ed un’ironia così limpida che persino in un’epoca in cui il disco-feticcio è stato drammaticamente buttato fuori dalla lista dei desideri degli adolescenti di tutto il mondo, “Alta fedeltà” resta un must.

A nessuno oggi verrebbe in mente di sedurre una ragazza preparandole una cassettina, ma chi non ha in curriculum un tentativo di approccio per mezzo di una successione di brani registrata su una BASF da novanta minuti? Oggi nessuno si sentirebbe intimorito da un negoziante, anche se “profondamente snob”, né si sognerebbe di venerarlo o di pendere dalle sue labbra, ma ai tempi del liceo il nostro idolo non era forse quella sorta di pusher con la pancetta che per trentamila lire ti faceva arrivare un Jon Spencer d’importazione?

Nella prefazione per la speciale riedizione del ventennale, Hornby scrive che “le innovazioni tecnologiche degli ultimi quindici anni possono senza dubbio farlo sembrare un libro in cui si parla di fabbri, lattai o tutte quelle altre professioni che nel mondo moderno si sono estinte”. E invece, tra dialoghi smaglianti (“Oh, dai, Laura. Di’ qualcosa. Menti, se vuoi. Mi farebbe sentire meglio, e smetterei di fare domande.” “Era proprio quel che volevo fare, ma adesso non posso più farlo, perché sapresti che sto mentendo.” “E perché volevi mentirmi?” “Per farti stare meglio.”), maleducazione sentimentale (“Cosa è venuto prima, la musica o la sofferenza? Ascoltavo la musica perché soffrivo? O soffrivo perché ascoltavo la musica? Sono tutti quei dischi che ci fanno diventare malinconici?”), citazionismo esasperato (Bruce Springsteen, Marvin Gaye, Solomon Burke, Art Garfunkel, Aretha Franklin i più gettonati) e le più fantasiose top five (“i cinque migliori dischi incisi da musicisti ciechi”), “Alta fedeltà” suona ancora che è una meraviglia – trattasi di un suono più vicino a quello graffiato e consolante di un vinile che a quello liquido e distante di Spotify: il suono di cui siamo sempre stati innamorati e rispetto al quale ogni dannato music streaming service non è altro che un misero surrogato.

Per vent’anni, anzi, “Alta fedeltà” è stato un modello di riferimento per chiunque volesse approcciare l’argomento musicale in narrativa. All’uscita di “Telegraph Avenue”, il suo ultimo romanzo, Michael Chabon mi ha detto che, avendo deciso di ambientarlo in un negozio di dischi, sapeva che avrebbe dovuto essere impeccabile e che non poteva permettersi errori, proprio perché Nick Hornby l’aveva fatto prima di lui in modo perfetto.

Rob, Dick, Barry, proprietario e commessi del Championship Vinyl, e tutti quelli come loro, non si sono estinti. Puoi magari incontrarli in posti diversi, al cinema, al bar, in treno, ma ci sono, eccome se ci sono, e continuano ad irritarsi per l’indistruttibile cattivo gusto altrui. Non hanno ancora preso le misure ai problemi della vita adulta e si arrabattano in confusi e improbabili desideri di una pubertà infinita, ma se ti venisse voglia di chiedergli a bruciapelo la discografia completa del Neil Young solista, puoi star certo che non tralascerebbero nessuno dei trentacinque titoli in elenco. Patetici, sprezzanti, vendicativi, praticamente irresistibili.

Proprio l’altro giorno ne ho incontrato uno al bar. Un cliente fisso del negozio di dischi della mia città che ha cessato di esistere da un bel po’. L’ho riconosciuto e, nonostante mi guardasse in cagnesco, l’ho salutato. Gli ho chiesto se aveva in programma di andare a sentire i Sun Kil Moon di Mark Kozelek al Siren Festival, visto che una volta, in negozio, facemmo una chiacchierata sull’importanza dei Red House Painters, prima band di Kozelek. “Mai ascoltata quella merda”, mi ha risposto, scuotendo la testa in un modo che si direbbe sconsolato. “Già”, ho sorriso. “Adesso mi sto concentrando sui Metallic Taste Of Blood, su Eraldo Bernocchi e tutta quella scena lì”, ci ha tenuto ad aggiungere, “al massimo, quelle rare volte che voglio ascoltare folk, prendo le due o tre uscite della K&F Records”.

I negozi di dischi non ci sono più ma i feticisti musicali sono ancora in mezzo a noi. Perché l’abbiamo sempre saputo ma non ce lo siamo mai detti: i gusti musicali scaturiscono, come scrive Hornby, “necessariamente da un impulso che nel profondo è antidemocratico: una parte di te deve essere convinta che quello che ti piace è meglio di tutto quello che piace a quegli altri perdenti”.


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